venerdì 9 aprile 2010

Il tesoriere dei Mille fatto fuori dagli Inglesi, di Silvia Stucchi (Libero, 9 aprile 2010)

Cesaremaria Glori, La tragica morte di Ippolito Nievo. Il naufragio doloso del piroscafo Ercole, Edizioni Solfanelli, Chieti 2010, 165 pagine, 12 euro

La tesi del saggio, come recita eloquente il titolo, è chiara: Ippolito Nievo, scrittore e patriota garibaldino, perito non ancora trentenne nel naufragio del vapore Ercole la notte fra il 4 e il 5 marzo 1861, sarebbe stato vittima di un sabotaggio.
In altre parole, dietro la morte dell’autore delle Confessioni di un italiano, spesso liquidato frettolosamente - e a torto!- come un “minore” della letteratura italiana, si celerebbe un vero giallo, un rebus rimasto insoluto per più di un secolo. L’autore, Cesaremaria Glori, ex Tenente colonnello, ora ricercatore e pubblicista, è convinto infatti che il piroscafo su cui era imbarcato Nievo, affondato al largo della costa sorrentina, guarda caso in corrispondenza di un tratto dai fondali particolarmente profondi, non fosse poi quella “carretta del mare” come invece venne presentato a posteriori, ma che, al contrario, si trattasse di una nave solida e perfettamente in grado, grazie agli interventi di manutenzione ricevuti, di solcare il Tirreno per effettuare un viaggio che, tutto sommato, potremmo definire di routine.
Ma perché mai la nave su cui viaggiava Nievo sarebbe stata affondata dolosamente? Per spiegare il “sabotaggio” (tale è l’esplicita convinzione di Glori, cfr. p. 126), l’autore, cui va riconosciuto un grande sforzo di documentazione basato sui realia, ricostruisce un ampio quadro storico che permette di comprendere, al di là della retorica della vulgata scolastica risorgimentale, quali siano state le forze veramente in campo negli anni attorno al 1860-61. E pertanto il saggio, diventando anche una sorta d’indagine giornalistica con venature giallistiche, si va a inserire in una più ampia serie di studi che, negli ultimi anni, vogliono non solo demistificare l’appiattente retorica di cui è stato avvolto il racconto del nostro Risorgimento, ma che mirano anche a dare un’immagine meno “a senso unico” di quegli anni, per evidenziarne le tensioni sotterranee, e per riscoprire, le forze attive, magari non proprio in campo aperto, ma determinanti nel loro adoperarsi dietro le quinte. Glori ricorda così che, alle vicende del 1860-61 diedero fondamentale impulso due elementi, solitamente negletti nel racconto patriottico: il primo fu la Massoneria -il cui ruolo nella realizzanda Unità d’Italia è stato indagato da poco in sede critica, per esempio da Angela Pellicciari (cfr. I Papi e la Massoneria, Ares 2007), la quale ha ricostruito i legami tra l’ideale Massonico e quello mazziniano e patriottico, dal momento che “l’unità d’Italia, e quindi la scomparsa dello Stato della Chiesa, erano funzionali all’instaurazione di un nuovo tipo di universalità” (ibid., p. 88); il secondo fattore fu l’intervento – e il finanziamento – inglese. In particolare, scrive Glori esplicitamente, “la conquista del Meridione d’Italia fu (…) agevolata in modo determinante dall’oro britannico (…) Quel fiume di denaro doveva servire a convincere una numerosa schiera di ufficiali e di alti esponenti dell’Amministrazione civile del Regno delle Due Sicilie, quanto meno, a non ostacolare, l’avvento del nuovo Ordine” (p. 132); e degli interessati maneggi inglesi, afferma l’autore, Nievo stesso era, secondo frammento di epistolario puntigliosamente compulsato da Glori, acutamente consapevole (pp. 38-39).
Il giovane Ippolito, per sua sfortuna, incrociò questa delicatissima congiuntura storica, restandone mortalmente (è proprio il caso di dirlo!) coinvolto, perché, membro della spedizione garibaldina, ricevette la carica di Vice Intendente, affidatagli anche in considerazione della sua comprovata onestà e del suo slancio ideale. Ciò comportava una serie di gravose responsabilità amministrative in relazione alla documentazione di spese e finanziamenti dell’impresa, e poneva Nievo in una posizione critica, in quella lotta la quale, lungi dalla vulgata scolastica che vuole perfetta concordia tra Cavour e Garibaldi, divise spesso in seguito i due partiti e le due fazioni. Il nostro patriota e scrittore dovette certo stilare un Rendiconto dettagliato circa lo stato delle finanze della spedizione. E tale documento non poteva non tenere conto del fatto che di tali finanziamenti facevano parte – e questo è il punto focale del testo di Glori - diecimila piastre turche in oro (equivalenti al valore di svariati milioni di dollari odierni, cfr. p. 55), elargite, secondo l’ipotesi già espressa da G. Di Vita durante il convegno “La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria” (1988, atti presso le Edizioni Bastogi, Foggia 1990) direttamente a Garibaldi per un valore di circa tre milioni di franchi del tempo. La somma fu convertita, per scrupolo dissimulatorio, in valuta di un Paese, la Turchia, nemmeno lontanamente legato alle italiche vicende, ed era, al contempo, valuta pregiata, accettata ed apprezzata in tutto il bacino del Mediterraneo, particolarmente in isole quali la Sicilia, Malta, Creta e Cipro (p. 56). Glori, addirittura, identifica anche il preciso momento in cui questo tesoro venne imbarcato sui legni garibaldini: ciò sarebbe accaduto durante la sosta a Talamone, sosta motivata tradizionalmente dalla necessità di rifornirsi di cibo ed acqua, il che, secondo l’autore, sarebbe però stato “altamente improbabile”. Piuttosto, va ricordato che, sino a pochi mesi prima della spedizione dei Mille, a Lucca si coniavano per conto della Turchia ottomana le piastre d’oro; una buona quantità di quel denaro giaceva ancora presso la Zecca lucchese, e “nulla vieta di presumere che fosse acquistato da un potente governo straniero” (ibid.), di concerto con il governo della Sublime Porta “per essere destinato a riservatissime esigenze”. Tale fortuna, nonostante manchino- Glori è assai onesto nell’ammetterlo- documenti su specifici episodi di corruzione di ufficiali e amministratori borbonici, avrebbe poi di molto accelerato la successiva marcia trionfale dalla conca di Palermo al Vesuvio. Il denaro fu posto sotto la diretta responsabilità di Nievo, non a caso nominato vice Intendente in occasione della sosta per rifornimento a Talamone, non alla partenza a Quarto e nemmeno all’arrivo a Marsala, il che conferma ulteriormente, se mai servisse, che nella località toscana avvenne qualcosa di fondamentale. E non dimentichiamo che Ippolito, in una lettera alla sorella, dopo lo sbarco a Marsala, afferma testualmente d’essere costretto a dormire su sacchi pieni di denari, i quali, per certo, non possono venire identificati, secondo Di Vita, e nemmeno secondo Glori, con i “pochi soldacci di rame” trovati nelle casse comunali della cittadina siciliana; De Vita, che avrebbe potuto consultare gli archivi massonici di Edimburgo, afferma che il denaro, identificato nelle piastre turche, provenisse dall’Impero Britannico, intenzionato a sradicare dall’Italia il Papato e pertanto favorevole alla causa dell’unità nazionale: così ipotizza con dovizia di particolari anche Glori.
Nievo, quindi, sarebbe perito nel naufragio doloso dell’Ercole, affinché i conti della spedizione garibaldina non rivelassero tale non disinteressato aiuto e, men che meno, la sua provenienza. Non solo: nella fitta mole di materiale d’archivio puntigliosamente compulsato, troviamo citata, e riprodotta fotograficamente, una lettera di condoglianze, firmata Giuseppe Garibaldi e indirizzata alla famiglia di Nievo (p. 126 ss.); la missiva esprime vivo dispiacere, e tuttavia, osa affermare Glori, sfidando nientemeno che il Mito, “il rammarico potrà anche essere stato sincero, ma quella lettera ai familiari ci appare intrisa di ipocrisia” (!): secondo l’autore del presente saggio, infatti, l’Eroe dei Due Mondi, affiliato alla Massoneria sin dal 1844, non poteva essere all’oscuro degli avvenimenti della notte fra il 4 e 5 marzo, così come pure doveva esserlo un altro personaggio ben noto a Nievo, e cioè il console Hennequin, anch’egli di comprovata familiarità con gli ambienti britannici e massonici. I tentativi di dissuasione di quest’ultimo, che cercò ripetutamente di convincere Nievo a procrastinare la partenza, consentirebbero di ipotizzare con una certa sicurezza che il giovane scrittore, al contrario, non doveva essere membro della associazione segreta, per il semplice motivo che, in tal caso, l’Hennequin avrebbe avuto l’obbligo di avvertirlo esplicitamente, per salvarlo, e il giovane, del resto, avrebbe dovuto obbedire al consiglio di un confratello.
Insomma, il testo di Glori espone e propone una tesi chiara, dimostrata more geometrico con dovizia di particolari, riproducendo molto materiale raro a consultarsi, il che dimostra uno studio indefesso, ostinato e appassionato, oltre che, ci pare, competente. Con socratica evidenza, una volta formulata l’ipotesi, sulla base di certe premesse, l’autore ci illustra una serie di indizi dettagliatissimi, per ricostruire un quadro che alla fine risulti persuasivo per il lettore: e, al di là delle conclusioni e delle convinzioni, resta, dalla lettura di queste pagine, l’impressione che sul nostro Risorgimento ancora molto ci sia da dire, e che molte figure, personaggi ed episodi, celino un risvolto avventuroso, ai limiti del giallo, che sarebbe interessante conoscere meglio.

Silvia Stucchi
Libero, 9 aprile 2010

1 commento:

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